di Riccardo Bertin, Vera Damuzzo, Mario Cirino e Daniele Mengato

Le scorse settimane è stato pubblicato su Nature Medicine un articolo che dimostra come la totalità dei pazienti in studio (285/285) affetti da Covid-19 abbia sviluppato IgG contro SARS-CoV-2 entro 19 giorni dall’inizio della sintomatologia clinica [1].

Si tratta di una scoperta indubbiamente rilevante, che dimostra la capacità del nostro sistema immunitario di sviluppare una risposta anticorpale contro il virus e, al contempo, richiama l’attenzione sul potenziale ruolo concertato dell’immunità innata e adattativa per promuoverne l’eliminazione.

Nel precedente articolo ci siamo soffermati proprio sull’importanza “neutralizzante” degli anticorpi prodotti – ovvero sulla loro capacità, mediante legame con il virus, di impedirne l’ingresso e la replicazione all’interno della cellula ospite favorendo una risoluzione dei sintomi. Nel caso in cui il sistema immunitario riesca a conservare memoria di questa risposta (come si era precedentemente verificato per SARS-CoV-1 e MERS-CoV), la presenza di anticorpi circolanti per SARS-CoV-2 consentirebbe di essere protetti in caso di re-infezione. Ad oggi, tuttavia, non ci è dato conoscere se tale memoria immunitaria possa svilupparsi e quanto possa essere duratura.

Immunità e anticorpi

L’immunizzazione passiva è un processo che prevede il trasferimento dell’immunità verso uno specifico antigene mediante la somministrazione di siero prelevato da individui immuni. Gli anticorpi trasferiti al soggetto vulnerabile conferiscono un’immunità immediata ma con breve efficacia nel tempo, in quanto sono soggetti ad una fisiologica clearance e la loro produzione non è sostenuta e rinnovata dai linfociti B.

Si parla infatti di immunizzazione “passiva” differenziando il significato da quella attiva (la vaccinazione) che prevede l’induzione di una risposta immunitaria che richiede tempo per svilupparsi e varia a seconda del soggetto al quale viene praticata. La somministrazione passiva di anticorpi rappresenta l’unico mezzo per fornire un’immunità immediata ai soggetti suscettibili di infezione [2].

Già nella fase iniziale dell’epidemia, le autorità sanitarie cinesi hanno riportato dati incoraggianti nel trattamento di pazienti infetti da Covid-19 con il plasma donato dai soggetti guariti, suggerendo un ruolo protettivo degli anticorpi sviluppati dai pazienti sopravvissuti [3].

Da qui, l’idea di ricorrere all’utilizzo di immunoglobuline iperimmuni – ovvero di anticorpi presenti nel plasma di soggetti che hanno alti titoli anticorpali contro uno specifico antigene e che sono convalescenti o precedentemente esposti all’infezione. La loro somministrazione non è però priva di rischi: richiede infatti il rispetto di scrupolose procedure di purificazione e potrebbe esporre il ricevente al rischio di anafilassi. Per aggirare il problema, è ipotizzabile che gli anticorpi neutralizzanti vengano prodotti in vitro come monoclonali, analogamente a quanto già accade in altri ambiti terapeutici [4].

Plasma exchange: di cosa si tratta?

Nell’ambito del rapporto tra Covid-19 e sistema immunitario, il plasma exchange (PE) è una procedura di plasmaferesi (ovvero di sostituzione del plasma sanguigno mediante tecniche di filtrazione o centrifugazione) con quello proveniente da un paziente precedentemente infetto da SARS-CoV-2 al fine di trasferirne passivamente gli anticorpi per prevenire o trattare la malattia. I benefici di tale sostituzione possono prevedere anche la rimozione delle citochine infiammatorie (chemochine, IL-6, IL1b), la stabilizzazione delle membrane endoteliali e il reset di eventuali stati ipercoagulativi – condizioni che rientrano tra le possibili complicanze dell’infezione da Covid-19 [5].

Possibili fonti di anticorpi per SARS-CoV-2 sono rappresentate dal plasma di individui precedentemente ammalati e in fase di guarigione, da preparazioni a base di anticorpi monoclonali o da sieri ottenuti a partire da animali ospiti (es: bovini geneticamente modificati per produrre anticorpi umani); ad oggi il solo plasma disponibile per uso immediato è quello proveniente da volontari che hanno contratto la malattia [2].

Il plasma prelevato da individui convalescenti era stato impiegato come trattamento empirico nell’epidemia di Ebola del 2014, inserito nel protocollo terapeutico della MERS nel 2015 e adottato in altri casi (SARS-Cov, influenza H1N1 e H5N1 aviaria) evidenziando risultati soddisfacenti, specie se somministrato all’inizio della malattia [6]. Nel caso di SARS-CoV-2, il principale meccanismo d’azione attraverso cui l’immunizzazione passiva protegge il ricevente è la neutralizzazione virale; possono tuttavia essere coinvolti anche altri possibili meccanismi, come la citotossicità anticorpo-mediata e/o la fagocitosi [2].

Quali evidenze scientifiche abbiamo a disposizione?

Una revisione sistematica e una metanalisi condotte nel 2014 su 32 studi per valutare il profilo di efficacia e sicurezza di plasma e siero iperimmune provenienti da pazienti affetti da infezioni respiratorie severe acute (SARI) di origine virale ha evidenziato l’assenza di eventi avversi seri e una riduzione del 75% della mortalità nei soggetti riceventi, suggerendo un ruolo sostanzialmente protettivo del PE [7]. Lo stesso gruppo di lavoro ha tuttavia dichiarato alcune importanti limitazioni emerse dall’analisi della letteratura: la carenza di studi di elevata qualità scientifica, l’inclusione di studi osservazionali senza gruppo di controllo (prevalentemente di tipo case report e case series) e un’elevata eterogeneità metodologica.

Conclusioni del tutto simili sono state tratte anche da una revisione sistematica recentemente pubblicata dalla Cochrane Library su 56 studi per valutare il profilo di efficacia e sicurezza di plasma proveniente da pazienti affetti da SARS-CoV-2 e terapia con immunoglobuline iperimmuni; le evidenze attualmente disponibili hanno mostrato scarsa solidità, soprattutto a causa dell’incompletezza dei dati e dei limiti metodologici. [8]

Due esigui studi condotti in Cina hanno mostrato alcuni potenziali benefici del PE nel trattamento di infezioni acute da SARS-CoV-2: il primo, una case series riferita a 5 pazienti con polmonite severa sottoposti a ventilazione meccanica, e il secondo basato sul monitoraggio di 10 pazienti con infezione severa.

Nel primo caso, 5 pazienti con diagnosi confermata e sindrome da distress respiratorio acuto hanno ricevuto una trasfusione di plasma da altrettanti pazienti convalescenti, sottoponendosi ad un monitoraggio dei sintomi e dei principali parametri ematochimici (tra i quali la carica virale e il titolo anticorpale).

Gli esiti hanno mostrato una negativizzazione della carica virale ematica entro i 12 giorni successivi alla trasfusione e un titolo di anticorpi neutralizzanti significativamente incrementato già nei giorni successivi alla trasfusione. Tre pazienti su cinque sono stati dimessi dall’ospedale dopo 37 giorni, mentre gli altri 2 avevano condizioni stabili [9].

Il secondo studio aveva caratteristiche molto simili al primo, ed era finalizzato a valutare il profilo di sicurezza e di efficacia del PE in una coorte di 10 pazienti affetti da SARS-CoV-2. La trasfusione è stata ben tollerata da tutti i pazienti e i sintomi clinici sono migliorati già dopo i primi tre giorni, sulla base del titolo di anticorpi neutralizzanti, della viremia e dell’indice di saturazione dell’ossiemoglobina [10].

Entrambi gli studi sono tuttavia caratterizzati da alcune importanti limitazioni: la numerosità campionaria estremamente esigua e la contestuale somministrazione di terapie farmacologiche (come interferone, corticosteroidi e lopinavir/ritonavir) senza una coorte di controllo.

Una lettera recentemente pubblicata su PNAS in merito a questi due studi ha suggerito come possibili provvedimenti per migliorare gli esiti clinici del PE la purificazione del plasma dalla frazione di citochine proinfiammatorie (cytokine clearence) e l’attenzione nell’eseguire la trasfusione in tempi più ravvicinati rispetto alla comparsa dei sintomi [11].

Non da ultimo, uno studio clinico multicentrico randomizzato condotto su 103 pazienti con diagnosi confermata di Covid-19 grave o potenzialmente letale ha evidenziato un miglioramento non statisticamente significativo tra i pazienti trattati con plasma di soggetti convalescenti in aggiunta al trattamento standard rispetto al solo trattamento standard (gruppo di controllo) nei 28 giorni successivi all’inizio della terapia. La sperimentazione è stata tuttavia interrotta precocemente, e gli stessi autori dello studio hanno avanzato l’ipotesi che ciò possa aver contribuito a sottostimare la differenza di efficacia fra le due coorti di pazienti, rimarcando l’importanza di raccogliere ulteriori dati provenienti da studi clinici randomizzati [12].

La posizione delle istituzioni

Sebbene promettente, il plasma di individui precedentemente infetti da SARS-CoV-2 non ha ancora dimostrato di essere un trattamento efficace e sicuro per i pazienti. La Food and Drug Administration statunitense ritiene importante studiarne il profilo di efficacia e sicurezza attraverso gli studi clinici, e per questa ragione a partire da fine marzo ha pubblicato delle linee guida sull’uso sperimentale di plasma proveniente da donatori precedentemente infetti da Covid-19. Il documento delinea tre possibili strategie di accesso alla plasmaferesi: la prima, nell’ambito dell’arruolamento in studi clinici; la seconda, attraverso un’iniziativa guidata dal Governo per favorire un accesso più “allargato” al plasma destinato a pazienti gravi o in pericolo di vita che non sono arruolabili in studi clinici e afferiscono a strutture assistenziali su tutto il territorio nazionale (denominato National Expanded Access Treatment Protocol). La terza, mediante richiesta motivata per singolo caso, avanzata dal medico per coloro che ritiene possano giovarne – sulla base della storia clinica dei pazienti e l’individuazione dell’istituto adibito alla raccolta e alla fornitura del plasma di donatori, previa successiva autorizzazione dell’FDA [13].

Il donatore deve rispondere a precisi criteri di eleggibilità: conferma di positività a Covid-19 documentata da un test diagnostico (es: tampone rinofaringeo) al momento della malattia o da test sierologico positivo per gli anticorpi SARS-CoV-2 dopo scomparsa dei sintomi (nel caso in cui non sia stato precedentemente eseguito un test diagnostico); completa risoluzione dei sintomi almeno 14 giorni prima della donazione; titolo di anticorpi neutralizzanti – laddove disponibile – pari ad almeno 1:160 (ovvero in grado di distruggere il virus in coltura anche dopo 160 diluizioni rispetto al campione di partenza).

Il plasma dei donatori va congelato entro 8 ore dalla raccolta, conservato a temperature uguali o inferiori a -18°C ed essere trasfuso al paziente entro un anno dalla raccolta [13].

Le società scientifiche SIdEM (Società Italiana di Emaferesi e Manipolazione cellulare) e SIMTI (Società Italiana di Medicina Trasfusionale e Immunoematologia) hanno condiviso un position paper sulla produzione di plasma iperimmune (“Covid19 convalescent plasma) da utilizzare nella terapia di SARS-CoV-2 con lo scopo di fornire indicazioni per la definizione di protocolli clinici che dovranno essere necessariamente approvati dai Comitati Etici ospedalieri [14]. I primi centri ad avviarsi su questa strada sono stati l’Azienda Socio-sanitaria Territoriale di Mantova e il Policlinico San Matteo di Pavia.

Recentemente è stato autorizzato dal Comitato Etico dell’INMI “L. Spallanzani” di Roma lo studio comparativo randomizzato TSUNAMI (“TranSfUsion of coNvalescent plAsma for the treatment of severe pneuMonIa due tu SARS-CoV-2”), attivato su indicazione del Ministero della Salute e promosso dall’Istituto Superiore di Sanità e dall’AIFA per valutare l’efficacia e il ruolo del plasma ottenuto da pazienti convalescenti.

Lo studio vede al momento coinvolti 56 centri distribuiti in 12 Regioni, e garantisce un approccio unico e standardizzato alla terapia basata su PE per ottenere evidenze scientifiche solide [15].

I limiti del PE

Il plasma destinato alla trasfusione verso individui gravemente malati dovrebbe caratterizzarsi per un elevato titolo di anticorpi neutralizzanti.

I test sierologici quantitativi non sono ancora ampiamente disponibili per identificare i donatori con anticorpi neutralizzanti ad alto titolo. Altre domande rimangono aperte, tra cui il dosaggio, i tipi di immunoglobuline ottimali (IgM, IgGe/o IgA) e i tempi di somministrazione durante il decorso di terapia: allo stato attuale non sappiamo quale sia il titolo di anticorpi neutralizzanti realmente efficace per prevenire e/o trattare l’infezione da SARS-CoV-2 [2].

A questo si aggiunge la difficoltà di standardizzazione delle preparazioni nel loro contenuto in anticorpi, il ridotto numero di donatori e il rischio che le somministrazioni di plasma possano alterare i processi della coagulazione nei soggetti riceventi.

Molti dei limiti sopra descritti potrebbero essere risolti mediante la produzione di un “siero artificiale” ottenuto per clonaggio di anticorpi monoclonali umani a partire dai geni isolati degli anticorpi naturali – processo che richiede tuttavia dei tempi tecnici di sperimentazione.

Nei processi di purificazione del plasma va anche ricordato che, al momento, non ci è dato distinguere con chiarezza i pazienti nei quali prevalgono le citochine pro-infiammatorie (potenzialmente letali) da quelli con prevalente profilo anti-infiammatorio (a carattere protettivo); risulta inoltre particolarmente complessa la rimozione dell’eccesso di citochine pro-infiammatorie mantenendo inalterata la concentrazione di mediatori anti-infiammatori [16].

Conclusione

Il PE effettuato con l’impiego del plasma dei pazienti convalescenti potrebbe rappresentare una strategia promettente nel trattamento delle infezioni da SARS-CoV-2 – anche sulla base delle esperienze maturate – ed è attualmente oggetto di studio in Italia e in diversi Paesi del mondo per raccogliere prove sulla sua efficacia e sicurezza.

Alcuni studi hanno sollevato la possibilità che plasma ed immunoglobuline iperimmuni vengano somministrati nei casi più gravi di malattia, o come profilassi nei soggetti fragili e più esposti in attesa che venga messo a punto un vaccino. In entrambi i casi, sono tuttavia necessari studi e trials clinici per valutare l’efficacia e la sicurezza del loro impiego su larga scala.

Bibliografia

[1] Long QX et al. Antibody responses to SARS-CoV-2 in patients with COVID-19. Nat Med. 2020 [published online ahead of print] doi: 10.1038/s41591-020-0897-1

[2] Casadevall A, Pirofski LA. The convalescent sera option for containing COVID-19. J Clin Invest 2020; 130(4):1545-1548. doi: 10.1172/JCI138003

[3] Keith P et al. A novel treatment approach to the novel Coronavirus: an argument for the use of therapeutic plasma exchange for fulminant COVID-19. Crit Care 2020; 24(1):128. doi: 10.1186/s13054-020-2836-4

[4] Nature Biotechnology. “Convalescent serum lines up as first-choice treatment for coronavirus”. Disponibile a: https://www.nature.com/articles/d41587-020-00011-1

[5] Knaup H et al. Early therapeutic plasma exchange inseptic shock: a prospective open-label nonrandomized pilot study focusing on safety, hemodynamics, vascular barrier function, and biologic markers. Crit Care 2018; 22(1):285. doi: 10.1186/s13054-018-2220-9

[6] Chen L et al. Convalescent plasma as a potential therapy for COVID-19. Lancet Infect Dis 2020; 20(4):398-400. doi: 10.1016/S1473-3099(20)30141-9

[7] Mair-Jenkins J et al. The effectiveness of convalescent plasma and hyperimmune immunoglobulin for the treatment of severe acute respiratory infections of viral etiology: a systematic review and exploratory meta-analysis. J Infectious Diseases 2015; 211(1):80-90. doi: 10.1093/infdis/jiu396

[8] Valk SJ et al. Convalescent plasma or hyperimmune immunoglobulin for people with COVID-19: a rapid review. Cochrane Database Syst Rev 2020 CD013600. doi: 10.1002/14651858.CD013600

[9] Shen C et al. Treatment of 5 critically ill patients with COVID-19 with convalescent plasma. JAMA 2020; 323(16):1582-1589. doi: 10.1001/jama.2020.4783

[10] Duan K et al. Effectiveness of convalescent plasma therapy in severe COVID-19 patients”. Proc Natl Acad Sci USA 2020; 117(17):9490-9496. doi: 10.1073/pnas.2004168117

[11] Kesici S et al. Get rid of the bad first: therapeutic plasma exchange with convalescent plasma for severe COVID-19. Proc Natl Acad Sci USA [online ahead of print] 2020; doi: 10.1073/pnas.2006691117

[12] Li L et al. Effect of convalescent plasma therapy on time to clinical improvement in patients with severe and life-threatening COVID-19: a randomized clinical trial. JAMA [online ahead of print] 2020; doi: 10.1001/jama.2020.10044

[13] Center for Biologics Evaluation and Research (CBER). “Recommendations for Investigational COVID-19 convalescent plasma – Emergency INDs”. 2020; Washington DC. Disponibile a: https://www.fda.gov/vaccines-blood-biologics/investigational-new-drug-ind-or-device-exemption-ide-process-cber/investigational-covid-19-convalescent-plasma-emergency-inds. Ultimo accesso: 01/06/2020.

[14] Società Italiana Di Emaferesi e Manipolazione cellulare (SIDEM) e Società Italiana di Medicina Trasfusionale e Immunoematologia (SIMTI). “Position Paper sulla produzione di plasma iperimmune da utilizzare nella terapia della malattia da SARS-CoV-2”. Disponibile a: http://www.emaferesi.it/wp-content/uploads/2020/03/Convalescent-Plasma-SIMTI_SIDEM-1.pdf. Ultimo accesso: 01/06/2020.

[15] Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). “Autorizzato studio nazionale Tsunami su efficacia e ruolo del plasma dei pazienti convalescenti da COVID-19”. Disponibile a: https://www.aifa.gov.it/web/guest/-/autorizzato-studio-nazionale-tsunami-su-efficacia-e-ruolo-del-plasma-dei-pazienti-convalescenti-da-covi-19. Ultimo accesso: 01/06/2020.

[16] Honore PM et al. Therapeutic plasma exchange as a routine therapy in septic shock and as an experimental treatment for COVID-19: we are not sure. Crit Care 2020, 24(1):226. doi: 10.1186/s13054-020-02943-1