di Vera Damuzzo, Riccardo Bertin, Daniele Mengato, Susanna Mandruzzato

Negli ultimi decenni, la conoscenza del sistema immunitario è diventata un tema di grande attualità in campo farmacologico grazie all’introduzione di un numero crescente di farmaci che sfruttano i meccanismi propri dell’immunità sia per contrastarne l’azione lesiva nei confronti dei nostri stessi tessuti (autoimmunità), sia per sfruttare l’immunità antitumorale in senso terapeutico.

Il sistema immunitario è però sicuramente più conosciuto per la sua capacità di proteggerci da infezioni virali o batteriche grazie all’azione concertata di un esercito di cellule specializzate e mediatori solubili, rilasciati sia nel sito di infezione che in circolo, che determinano una risposta ad alta specificità per ogni tipo di infezione.

Di conseguenza, durante l’epidemia di SARS-CoV-2 è prioritario capire con quali meccanismi il sistema immunitario reagisca in maniera specifica contro questa infezione. Queste nozioni sono la condizione essenziale per effettuare studi epidemiologici su larga scala sulla diffusione del virus, per lo sviluppo di un eventuale vaccino, e, in tempi più rapidi, per capire se sia possibile sfruttare i meccanismi propri dell’immunità per curare la malattia attraverso farmaci (ad es. tocilizumab) o terapie trasfusionali (ad es. plasma exchange). 

Questo articolo vuole fare il punto sulle conoscenze attuali del rapporto tra SARS-CoV-2 e sistema immunitario, e a quali scenari queste conoscenze aprono per la gestione terapeutica della pandemia. Questa sarà la prima puntata di una mini serie dedicata a questo tema e i prossimi contributi si occuperanno di plasma exchange, test diagnostici sierologici, prospettive future per lo sviluppo di un vaccino efficace.

La risposta immunitaria nelle infezioni virali

In linea generale, quando una cellula viene infettata da un virus questa è in grado di “accorgersi” che al suo interno sta avvenendo la replicazione virale grazie a diversi recettori dell’immunità innata che agiscono come sensori dell’infezione e attivano una cascata di segnali intracellulari finalizzati a lanciare due programmi d’azione antivirale [1]. Il primo porta alla produzione di interferoni di tipo I e tipo III che agiscono localmente impedendo la diffusione dell’infezione e creando uno stato antivirale delle cellule infette. Il secondo programma messo in atto porta all’attivazione di risposte dell’immunità adattativa – ovvero citotossiche e anticorpali – dotate di memoria immunologica, volte a uccidere altre cellule infettate e impedire la diffusione sistemica del virus. Questi tipi di risposta sono finemente concertate tra di loro e si sviluppano nel tempo in modo tale che l’azione dell’immunità innata da un lato fornisca un argine iniziale alla diffusione dell’infezione e al contempo favorisca lo sviluppo della successiva risposta adattativa, dotata di più ampia specificità e di maggiore potenza.

Covid-19 e interferoni

Un recente studio ha permesso di capire che la risposta mediata dagli interferoni, cioè uno dei primi programmi anti-virali, era maggiormente soppressa nei pazienti Covid-19 più gravi rispetto ai casi con sintomatologia più lieve [2]. Questo risultato è stato validato anche misurando i livelli circolanti di interferone nel plasma dei pazienti e si è capito che, nonostante i livelli di interferone fossero ridotti, vi era comunque una significativa risposta pro-infiammatoria mediata da altri fattori solubili (chemochine, IL-6, IL1β). Questo diverso “direzionamento” della risposta pro-infiammatoria comporta una maggiore attivazione di alcune popolazioni del sistema immunitario innato, come macrofagi e neutrofili, molto diffusi a livello dell’epitelio polmonare e responsabili di una risposta “esplosiva” e potenzialmente dannosa per i tessuti che circondano il sito di infezione. Questi risultati potrebbero avvalorare l’uso nelle fasi precoci della malattia di terapie a base di interferone, utilizzato quindi per “ripolarizzare” in maniera corretta la risposta immunitaria, ma ulteriori studi sono necessari per meglio caratterizzare il ruolo di interferone nella risposta al Covid-19 e la possibilità di utilizzarlo in clinica [3].

Covid-19 e produzione di anticorpi

Riscuote invece un interesse sicuramente maggiore il secondo programma anti-virale, e in particolare la possibilità di produrre anticorpi specifici nei confronti di antigeni espressi da SARS-CoV-2. Questo è il presupposto sia per lo sviluppo di un vaccino, sia per la possibilità di mappare la diffusione del virus effettuando test sierologici su ampi campioni di popolazione.

Esistono diverse classi di anticorpi (isotipi) che si differenziano per la diversa distribuzione all’interno del nostro corpo e a cui si associano diverse caratteristiche e funzioni effettrici. Le immunoglobuline prodotte precocemente dopo l’infezione sono le IgM che sono contraddistinte da bassa affinità per il virus, localizzazione prevalente nel torrente circolatorio e capacità di attivare il complemento. Con il passare del tempo, le plasmacellule cominciano a produrre anche altre classi di immunoglobuline come le IgG che sono caratterizzate da localizzazione sia plasmatica che tissutale e, generalmente, da una maggiore affinità di legame per il virus, consentendo quindi una migliore capacità di neutralizzazione [4]. La possibilità che vengano prodotte immunoglobuline specifiche in grado di riconoscere la proteina spike e il nucleocapside di SARS-CoV-2 è stato già dimostrato in questi mesi da diversi studi [5-7].

Il primo studio, condotto su 265 pazienti sintomatici e con tampone positivo, dimostra che entrambe le classi di immunoglobuline IgM e IgG vengono prodotte in questi pazienti entro 20 giorni dall’inizio della sintomatologia. La produzione degli anticorpi è veloce e i livelli circolanti si stabilizzano già sei giorni dopo lo sviluppo dei sintomi mantenendosi costanti durante i 30 giorni di osservazione programmati dallo studio [6].

Durante l’epidemia di MERS-CoV, uno dei criteri diagnostici elaborati dall’OMS per individuare i casi positivi è stato quello ricercare nei pazienti la sieroconversione e la presenza di anticorpi neutralizzanti [7]. La sieroconversione era definita come un aumento di almeno 4 volte del titolo delle immunoglobuline specifiche per il virus riscontrata in almeno due prelievi seriali. Tuttavia, lo studio di Long et al. dimostra che questo criterio diagnostico potrebbe fallire nel caso di SARS-CoV-2 qualora il primo prelievo non fosse effettuato in maniera tempestiva e ricadesse invece nella fase di plateau del titolo anticorpale di precoce insorgenza; di conseguenza, gli autori raccomandano di testare il prima possibile i pazienti sospetti.

Lo studio ha valutato anche 52 casi sospetti di infezione con tampone negativo e 164 contatti stretti delle persone ammalate, di cui 148 avevano il tampone negativo. Un certo numero di pazienti con tampone negativo (3/52 sintomatici e 7/148 contatti stretti) producevano entrambe le classi di anticorpi per SARS-CoV-2. Non è chiaro se la presenza di questi anticorpi sia specifica per SARS-Cov-2 o sia da ascrivere ad una cross-reazione degli anticorpi rilevati per altri coronavirus diversi da SARS-Cov-2, o ancora sia un falso positivo dovuto alla tecnica di rilevazione anticorpale.

Uno studio simile condotto in Francia, ha dimostrato dei tassi inferiori di sieroconversione nei pazienti ospedalizzati con tampone positivo (64%), ma gli autori dichiarano un possibile bias dovuto al fatto che i prelievi potrebbero essere stati effettuati in tempi troppo precoci, e quindi prima di una possibile sieroconversione [8]. Quando l’indagine è stata ripetuta su 209 pazienti pauci-sintomatici e 1200 controlli sani (donatori di sangue) la positività per gli anticorpi anti- SARS-CoV-2 è stata del 29% nella coorte dei malati con sintomi lievi e 3% nei controlli sani. Questo studio è interessante poiché pone a confronto 4 tecniche diverse di determinazione del titolo anticorpale dimostrando che solo le più sensibili sono in grado di misurare il titolo anticorpale nei pazienti con sintomi lievi, dove la sieroconversione potrebbe non essere ottimale in tutti i pazienti. Infatti, un aspetto critico è al momento rappresentato dall’affidabilità dei molteplici test sierologici disponibili (non ancora sufficientemente validati e confrontati tra di loro), che porta alla produzione di risultati talvolta contradditori in diversi studi. In futuro sarà quindi indispensabile arrivare a degli standard condivisi nella diagnostica sierologica al SARS-CoV2.

Anticorpi specifici e anticorpi neutralizzanti

Questi studi sono focalizzati sull’individuazione di anticorpi-specifici contro SARS-CoV-2, anticorpi quindi in grado di legarsi ad un antigene di superficie del virus. Rimane tuttavia aperta la discussione circa la possibilità che questi anticorpi abbiano capacità neutralizzante. L’azione neutralizzante dell’anticorpo si esplica nella sua capacità di legare delle regioni esposte del virus impedendone il legame con la superficie delle cellule, la penetrazione nel citoplasma e/o l’uscita dei nuovi virioni prodotti all’interno della cellula ospite. Inoltre, la formazione di complessi tra virioni e anticorpi circolanti favorisce la clearance di questi complessi poiché stimola la fagocitosi da parte di cellule del sistema immunitario innato.

Vi sono già alcuni studi che hanno valutato la capacità neutralizzante di anticorpi anti- SARS-CoV-2 isolati da pazienti Covid-19 [8,9,10]. Due di questi hanno dimostrato in vitro la capacità neutralizzante del plasma dei pazienti infetti e hanno successivamente dimostrato che l’attività neutralizzante era correlata con il livello circolante di anticorpi specifici (IgG) contro SARS-CoV-2 (anti-S1, S2, e RDB) [8-9]. Uno dei due studi ha anche evidenziato che i pazienti più anziani avevano titoli anticorpali maggiori che correlavano con una maggiore attività neutralizzante, un aumento della proteina C-reattiva (un marker precoce di infiammazione) e una diminuzione dei leucociti al momento del ricovero [9]. Tuttavia, lo studio non effettua alcuna correlazione tra il titolo anticorpale e l’andamento clinico della malattia nella coorte di pazienti anziani. Infine, questo studio osserva che il 30% dei pazienti presentava bassi titoli di anticorpi neutralizzati ed è guarito spontaneamente.

Correlazione tra sieroconversione e parametri clinici

La correlazione tra livelli anticorpali e decorso della malattia è invece un punto importante ma per cui i risultati sono ancora molto preliminari [11,12,13]. Uno studio cinese ha osservato che i pazienti con decorso clinico peggiore presentano aumentati titoli di anticorpi specifici per il nucleocapside di SARS-CoV-2 [11]; un secondo studio dimostra che i livelli di anticorpi specifici per la proteina spike del virus (S1) correlano con la gravità dei sintomi. Inoltre, in analogia a quanto già dimostrato dallo studio di Grzelak et al., i titoli anticorpali correlano positivamente anche con età, LDH (marker correlato alla progressione di malattia) e negativamente con il livello di linfociti, e si osservano indici di correlazione migliori nella popolazione femminile [13].

Prospettive future

I risultati finora ottenuti da un lato indicano che la sieroconversione e la produzione di anticorpi neutralizzanti è possibile, ma non nel 100% dei pazienti. C’è quindi la necessità di ulteriori studi in coorti più numerose per capire quali siano le percentuali attese di immunizzazione in seguito a somministrazione dei vaccini che entreranno a breve in sperimentazione clinica. Grzelak et al. sottolineano anche la necessità di misurare il titolo anticorpale nei donatori di plasma prima della donazione. Infine, la presenza di guarigioni spontanee in pazienti che non si sono sieroconvertiti mantiene aperta la possibilità che vi siano anche altri meccanismi che permettono di eliminare l’infezione, e a questo proposito va ricordata la risposta cellulo-mediata dei linfociti T – che attualmente è ancora poco definita, ma è sicuramente importante per eliminare le cellule infettate dal virus tramite i linfociti T CD8+ e promuovere l’aiuto alla produzione di anticorpi tramite i linfociti T CD4+. Va invece segnalato che molti studi riportano una significativa linfopenia sia dei linfociti CD4 che CD8 nei casi Covid-19 moderati o severi, e che la gravità della malattia sembra inoltre essere correlata alla riduzione dei linfociti T.

Come riflessione finale riportiamo quanto pubblicato in una recente review da Nature Review Immunology, in cui gli autori mettono in guardia sulla possibilità di applicare con facilità l’equazione “presenza di anticorpi = possibilità di vaccino”. Infatti, la produzione di anticorpi a bassa affinità o in scarsa quantità può portare ad un effetto paradosso che promuove la crescita del virus invece che impedirla. Questo fenomeno è chiamato antibody- dependent enhancement ed è stato osservato in modelli animali di SARS [14].

In conclusione, ora che sappiamo che esiste una risposta anticorpale diretta contro SARS-CoV-2, è necessario studiare meglio quali caratteristiche abbiano gli anticorpi che correlano con la remissione della malattia o, al contrario, con il peggioramento delle condizioni cliniche. Queste conoscenze permetteranno di sviluppare un vaccino sicuro ed efficace o, alternativamente, di produrre in vitro anticorpi monoclonali neutralizzanti ad alta affinità, in analogia a quanto già succede in altri ambiti terapeutici.

Si ringrazia la Prof.ssa Susanna Mandruzzato dell’Università degli Studi di Padova per la revisione dei contenuti

REFERENZE:

  1. Blanco-Melo F et al. Imbalanced host response to SARS-CoV-2 drives development of COVID-19. Cell. 10.1016/j.cell.2020.04.026 (2020).
  2. Hadjadj J et al. Impaired type I interferon activity and exacerbated inflammatory responses in severe Covid-19 patients. Preprint at medRxiv https://doi.org/10.1101/2020.04.19.20068015 (2020)
  3. Sallard E et al. Type 1 interferons as a potential treatment against COVID-19. Antiviral Res. 2020 Apr 7;178:104791. doi: 10.1016/j.antiviral.2020.104791.
  4. Weaver C, Murphy K. Janeway’s Immunobiology. 9th edition. New York: Garland Science; 2016.
  5. Yi-Wei T et al. The Laboratory Diagnosis of COVID-19 Infection: Current Issues and Challenges. J. Clin. Microbiol. 2020 Apr. 3. doi:10.1128/JCM.00512-20
  6. Long QX. Antibody responses to SARS-CoV-2 in patients with COVID-19. Nat Med. 2020 Apr 29. doi: 10.1038/s41591-020-0897-1.
  7. https://www.who.int/csr/disease/coronavirus_infections/WHO_interim_recommendations_lab_detection_MERSCoV_092014.pdf
  8. Grzelak l et al. SARS-CoV-2 serological analysis of COVID-19 hospitalized patients, pauci-symptomatic individuals and blood donors. Preprint at medRxiv https://doi.org/10.1101/2020.04.21.20068858 (2020).
  9. Wu F et al. Neutralizing antibody responses to SARS- CoV-2 in a COVID-19 recovered patient cohort and their implications. Preprint at medRxiv https://doi.org/10.1101/2020.03.30.20047365
  10. Ju B et al. Potent human neutralizing antibodies elicited by SARS-CoV-2 infection. Preprint at bioRxiv https://doi.org/10.1101/2020.03.21.990770 (2020)
  11. Tan W et al. Viral kinetics and antibody responses in patients with COVID-19. Preprint at medRxiv https://doi.org/10.1101/2020.03.24.20042382 (2020).
  12. Zhao J et al. Antibody responses to SARS-CoV-2 in patients of novel coronavirus disease 2019. Clin Infect Dis. 2020 Mar 28. pii: ciaa344. doi: 10.1093/cid/ciaa344.
  13. Jiang HW et al. Global profiling of SARS- CoV-2 specific IgG/IgM responses of convalescents using a proteome microarray. Preprint at medRxiv https://doi.org/10.1101/2020.03.20.20039495 (2020).
  14. Iwasaki A et al. The potential danger of suboptimal antibody responses in COVID-19. Nat Rev Immunol. 2020 Apr 21. doi: 10.1038/s41577-020-0321-6.

Per quanto riguarda le referenze 2, 8, 9, 10, 11, 13 (disponibili ad oggi solo come articoli pubblicati su repository privi di peer review), la Prof.ssa Susanna Mandruzzato, che è in contatto con i laboratori in cui operano i relativi autori, si fa garante della qualità scientifica dei rispettivi studi.